Il dibattito intorno alla mancata messa in onda del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile continua a suscitare accese discussioni e polemiche. Al centro di tutto, l’amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, e la giornalista Serena Bortone, conduttrice del programma “Chesarà…”. Le dichiarazioni di Sergio durante l’evento hanno sollevato un’ondata di reazioni, tra cui l’indignazione del Partito Democratico e le critiche dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti della Rai.
Roberto Sergio non ha usato mezzi termini nel giudicare il comportamento di Serena Bortone. La giornalista aveva denunciato sui social la mancata trasmissione del monologo di Scurati, aprendo la strada a un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Sergio ha affermato: “A nessun dipendente di nessuna azienda sarebbe consentito di dire cose contro l’azienda in cui lavora. Lei questo ha fatto e non è stata punita“. Inoltre, Sergio ha negato qualsiasi forma di censura, sostenendo di aver invitato Bortone tramite WhatsApp a mandare in onda il monologo, ma che lo scrittore ha rifiutato di partecipare poiché non veniva pagato.
Antonio Scurati ha prontamente risposto alle accuse di Sergio, definendo falsa l’affermazione secondo cui non avrebbe partecipato perché non retribuito. “Lo sfido a fornire prova del contrario”, ha dichiarato Scurati, ribadendo che l’accordo economico era stato chiuso e che la sua partecipazione era stata annullata solo dopo che aveva inviato il testo del monologo, che sollevava questioni imbarazzanti per il capo del governo. Scurati ha inoltre criticato la gestione della Rai, accusandola di esercitare una “pressione soffocante” sulla libertà d’informazione.
L’Usigrai ha definito “inaccettabili e gravissime” le dichiarazioni di Sergio su Serena Bortone. “Arrivare a ipotizzare pubblicamente il licenziamento di una dipendente mentre è in corso un procedimento disciplinare ha il sapore della minaccia”, ha affermato il sindacato. Inoltre, l’Usigrai ha sottolineato l’ipocrisia di Sergio, ricordando un episodio del 2023 in cui egli stesso aveva attaccato pubblicamente un collega su Facebook senza subire conseguenze simili.