Annahar vince il premio “Brave Brand” per il 2024

Il quotidiano libanese Annahar ha ricevuto per il secondo anno consecutivo il premio “Brave Brand” conferito dall’Advertising Club di New York. Il principale quotidiano di Beirut è stato premiato per la sua campagna Newspapers Inside The Newspaper, un’iniziativa che ha fatto rivivere per un giorno sei giornali libanesi chiusi, per riportare in auge le voci che un tempo si battevano per la libertà di stampa. La campagna mirava a mettere in luce il deterioramento della libertà di stampa nel Paese, alle prese con difficoltà economiche e instabilità politica. “In un mondo in cui la verità può essere sfuggente, crediamo che sia nostro dovere cercarla, raccontare le storie che contano e restare fermi di fronte alle difficoltà”, ha affermato Nayla Tueni, CEO e caporedattrice di Annahar, in un video pubblicato sui canali social del quotidiano. Ogni pagina dei nuovi giornali ospitava i giornalisti originali e consentiva loro di scrivere senza timore di persecuzioni, a simboleggiare una posizione a favore della libera espressione. Tueni, che ha assunto la direzione di Annahar dopo che suo padre, Gebran Tueni, è stato assassinato nel 2005, ha affermato che la campagna è avvenuta in un periodo particolarmente difficile per il Libano. In mezzo alla crisi economica in corso e al crescente conflitto tra Israele e Hezbollah, ha affermato, l’impegno del giornale per la libera stampa è rimasto incrollabile. La campagna premiata, lanciata il 12 dicembre 2022, è stata anche un omaggio all’eredità di suo padre, fervente sostenitore della libertà di stampa in Libano. Tueni ha affermato che “celebra l’audacia di aprire nuove strade” e funge da “testimonianza della nostra resilienza e del nostro impegno incrollabile nei confronti della nostra missione”. Annahar ha annunciato di recente un passaggio verso una strategia “digital first”, trasformandosi in quello che Tueni ha definito un “giornale di opinione” incentrato sulla modernizzazione del suo approccio, continuando a sostenere i principi del giornalismo libero.
Washington Post, Bezos sospende l’endorsement a Kamala Harris

Il testa a testa tra Donald Trump e Kamala Harris non solo accende il dibattito politico negli Stati Uniti, ma divide anche i miliardari americani in modi inaspettati. Tra i sostenitori di Trump spicca Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, che ha investito decine, forse centinaia, di milioni di dollari a favore dell’ex presidente, utilizzando anche il suo social network, X, per sostenere la campagna di Trump e criticare Harris. Tim Walz, braccio destro della Harris, ha dichiarato che Musk sembra ormai il vero “running mate” di Trump, più che JD Vance, confermando così l’importanza del magnate per la campagna repubblicana. All’estremo opposto si trova Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post, tradizionalmente progressista. Trump ha sempre considerato Bezos un avversario, ma recentemente il miliardario ha manifestato una posizione inaspettatamente morbida nei suoi confronti, elogiando Trump per la gestione di una crisi e imponendo al Washington Post di non sostenere la Harris, rompendo una tradizione di endorsement democratico che durava da decenni. Questo cambio di posizione è stato interpretato come un tentativo di evitare possibili ritorsioni da parte di Trump qualora tornasse al potere. Diversi altri miliardari, che in passato erano critici nei confronti di Trump, sono ora silenziosi. Tra questi Warren Buffett, Sergey Brin di Google, Steve Ballmer ex CEO di Microsoft e Ray Dalio di Bridgewater. Alcuni, come Mark Zuckerberg di Meta e Jamie Dimon di JPMorgan, hanno cercato di mantenere una posizione neutrale, pur rimanendo in parte democratici. Dimon ha chiarito di non voler prendere posizione apertamente, nonostante la sua moglie sostenga la Harris. Il mondo finanziario di Wall Street sembra preferire Trump, attratto dalla promessa di tagli fiscali per le aziende. Tuttavia, Forbes rivela che la lista dei donatori miliardari di Harris è più ampia, con 81 donatori contro i 52 di Trump. Tra i principali sostenitori democratici si annoverano Bill Gates, Reid Hoffman di LinkedIn, Reed Hastings di Netflix, Eric Schmidt ex CEO di Google, George Soros e Michael Bloomberg. Anche figure della cultura popolare, come Taylor Swift, Bruce Springsteen, Steven Spielberg e Magic Johnson, appoggiano Harris. La decisione di Bezos di sospendere l’endorsement del Washington Post ha causato una rivolta interna nella redazione. Giornalisti di punta hanno espresso indignazione, con un veterano che ha persino dato le dimissioni in segno di protesta. Secondo l’editorialista Robert Kagan, il cambio di rotta rappresenta un “inginocchiamento preventivo” nei confronti di Trump e delle sue dichiarate intenzioni di attaccare i media indipendenti. Anche il Los Angeles Times, di proprietà del miliardario Patrick Soon-Shiong, ha adottato una politica simile per evitare potenziali ritorsioni. Ex cronisti del Washington Post, come Bob Woodward e Carl Bernstein, critici per la decisione di Bezos, affermano che sospendere l’endorsement a ridosso delle elezioni ignora le prove raccolte dalla testata sulla minaccia che una seconda presidenza Trump potrebbe rappresentare per la democrazia americana. Questo gesto segna una fase critica per la libertà di stampa negli Stati Uniti, rivelando il potere dei miliardari nell’influenzare il panorama mediatico e il processo elettorale.