Il 19 dicembre 2024, la giornalista italiana Cecilia Sala, inviata del quotidiano Il Foglio e autrice del podcast Stories per la piattaforma Chora, è stata arrestata a Teheran dalle autorità iraniane. La Farnesina ha confermato il fermo solo venerdì 27 dicembre, dopo giorni di trattative diplomatiche riservate. Sala è attualmente detenuta in una cella di isolamento nella prigione di Evin, struttura tristemente nota per ospitare dissidenti e cittadini stranieri.
Secondo una nota di Chora Media, la podcast company per cui Sala lavora, la giornalista si trovava in Iran da una settimana per raccontare storie legate al patriarcato e al contesto sociale del Paese. Avrebbe dovuto fare ritorno a Roma il 20 dicembre, ma la mattina del giorno precedente, dopo uno scambio di messaggi con colleghi e familiari, il suo telefono è diventato muto. I tentativi di contattarla si sono rivelati vani, e la conferma che non si fosse imbarcata sul volo per l’Italia ha alimentato ulteriormente i timori. Poche ore più tardi, il suo telefono si è riacceso per un breve lasso di tempo, permettendole di effettuare una telefonata a sua madre. Sala ha comunicato di essere stata arrestata e di trovarsi in carcere, senza però poter fornire ulteriori dettagli. In una seconda telefonata, ha rassicurato la famiglia dicendo: “Sto bene, ma fate presto”.
Immediatamente dopo la scomparsa di Sala, il compagno, il giornalista del Post Daniele Raineri, e la sua redazione hanno allertato l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri. Da quel momento, il governo italiano si è attivato su più fronti. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il ministro degli Esteri Antonio Tajani e l’ambasciatrice italiana a Teheran, Paola Amadei, hanno avviato negoziati con le autorità iraniane per ottenere il rilascio della giornalista. Sempre venerdì 27 dicembre, l’ambasciatrice Amadei ha potuto incontrare Sala per verificarne le condizioni di salute e di detenzione.
Le autorità iraniane non hanno comunicato ufficialmente le accuse contro di lei, lasciando intendere che le imputazioni potrebbero non essere state ancora formalizzate. Questo modus operandi è tipico di un contesto politico e sociale altamente repressivo. L’Iran è infatti uno dei Paesi peggiori al mondo per la libertà di stampa, classificato al 176° posto su 180 nel Press Freedom Index 2024 di Reporters Without Borders.
Dal 2022, il regime ha intensificato la repressione nei confronti dei giornalisti: almeno 79 professionisti sono stati arrestati, molti dei quali condannati con accuse pretestuose. Questo clima di intimidazione si inserisce in una strategia diplomatica più ampia, con l’Iran che utilizza spesso i detenuti stranieri come leva per negoziati internazionali. Il caso di Cecilia Sala richiama altri episodi recenti, come l’arresto del giornalista Reza Valizadeh, condannato a dieci anni di carcere con l’accusa di “collaborazione con un governo ostile”.
Cecilia Sala, durante il suo soggiorno in Iran, aveva affrontato temi sensibili per il regime. Nel suo podcast aveva parlato del patriarcato, della detenzione di artisti come la comica Zeinab Musavi, e delle milizie filo-iraniane in Medio Oriente, intervistando personalità di spicco come Hossein Kanaani, fondatore delle Guardie rivoluzionarie. La sua attività giornalistica, riconosciuta per il rigore e l’indipendenza, si è scontrata con un contesto in cui la libertà di stampa è soppressa con sistematica brutalità.
Il caso di Cecilia Sala è l’ennesimo monito sulla fragilità del giornalismo in regimi autoritari. L’Italia continua a lavorare intensamente per il rilascio della giornalista, riaffermando un principio fondamentale: il giornalismo non è un crimine.